MALPENSA COME SINTOMO

Di Maurizio Blondet

 

Che sia stata la furbizia clientelare romana a scavare la fossa all’aeroporto di Malpensa è ovvio: anche se il 75% dei viaggiatori compra i biglietti al nord, 19 mila (su 20 mila) dipendenti di Alitalia abitano a Roma e a Roma vogliono stare.
Non gli si può dar torto, è più bello: ma ci vogliono stare pagati da noi. E, come tutte le burocrazie parassitarie «pubbliche», hanno vinto danneggiando, l’economia.

Ma è almeno singolare che Formigoni faccia la voce grossa del difensore del nord: il deperimento di Malpensa è anche colpa della Regione Lombardia, il preteso modello di efficienza. Chiunque abbia dovuto prendere un volo da là sa perché.

Hanno fatto un aeroporto nel nulla, in una brughiera deserta a 60 chilometri da Milano, e non l’hanno collegato a niente.  Aspettandosi poi che diventasse un «hub» internazionale da sé, per miracolo e spontaneo concorso degli utenti.

E non mi si obbietti che Malpensa giace vicino all’autostrada Milano-Varese (forse la più intasata d’Europa, non pochi hanno perso l’aereo in colonna), né per favore mi dicano che Malpensa è collegato con Milano dal treno delle Ferrovie Nord: perché questo è il problema.

Ed è un problema lombardo, perché le Nord appartengono alla Regione.

Dev’essere stato Formigoni a dare il nome «Malpensa Express» a questo malinconico due-vagoni: tipico di lui, l’imitazione nominale di una modernità internazionale a cui è culturalmente estraneo. Questo supposto «Express» parte ogni mezz’ora da piazza Cadorna. Lentamente, in un’oretta, raggiunge la brughiera.

Alle 22 termina la corsa: i passeggeri del volo da Kuala Lumpur in ritardo, se atterrano a mezzanotte, si arrangino.

Ci sono sempre i tassisti (a 90-110  euro) e specialmente, a quell’ora, gli abusivi. E quello sarebbe il «collegamento con la metropoli»?

Eppure Formigoni e i suoi boys, che viaggiano molto nel mondo (a spese nostre, a fare la politica estera lombarda dicono) deve essere sceso qualche volta a Francoforte.

Avrà visto cosa c’è ai piani sotterranei di quell’aeroporto: intere stazioni ferroviarie e metropolitane, da cui si prende veloce il primo rapido per tutta la Germania.

Avrà visto Skyphol, Amsterdam: anche lì, l’aeroporto è al centro di un nodo incredibile di binari, e in Olanda le ferrovia «sono» la metropolitana olandese, ti portano dovunque e i treni passano continuamente.

Idem il Charles De Gaulle di Parigi: sotto, tutti gli strati possibili di metrò,  ferrovie locali RER, treni nazionali «grand vitesse», altrettante piattaforme di lancio di passeggeri.

Ad Heathrow si arriva con la metropolitana di Londra.

Dall’aeroporto Kennedy di New York si ha solo da scegliere il mezzo, compreso l’elicottero che ti depone a Manhattan in dieci minuti ad una tariffa inferiore a quella che ti chiede un taxi per portarti a Malpensa.

E non parliamo nemmeno di Chicago, coi suoi treni «interni» per raggiungere i vari satelliti d’imbarco senza dover trascinare la valigia su infiniti nastri trasportatori; taciamo, per vergogna, sul modernissimo aeroporto di Istanbul.

Avrà visto Formigoni che cosa sono gli «hub»? Forse no.

Forse ogni volta che atterra lo attende - come attende sempre i privilegiati parassiti pubblici - una limousine, e quindi non ha visto cosa c’è sotto l’«hub» di Francoforte e Skyphol, al servizio dei viaggiatori meno ufficiali di lui.

Così, la cosiddetta classe dirigente non può nemmeno capire questo fatto elementare: che gli aeroporti non sono una striscia asfaltata di decollo, ma sono soprattutto un nodo al centro di  un sistema integrato di trasporti terrestri.
E che questi sono l’essenziale, non le architetture dell’edificio o i negozi del Made in Italy a prezzi proibitivi.

La rabbia è che Malpensa, per posizione geografica, poteva davvero essere il grande aeroporto di tutto il nord-Italia, la zona più ricca del Paese e fra le più attive d'Europa.

Giace infatti a una ventina di chilometri dalla linea delle FFSS che va da Torino a Trieste.

Bastava collegarlo con quella linea, e provate a immaginare: un viaggiatore con valigia salta sul treno a Venezia, o Padova, Verona, Vicenza, Trieste, Ivrea, Torino, e va a prendere il volo al «suo» aeroporto, senza dover cambiare, né aspettare un taxi,  né camminare.

Invece la realtà è questa: se un viaggiatore di Venezia fosse tanto folle da voler prendere un volo a Malpensa, deve salire a Venezia sul treno delle Ferrovie dello Stato, e scendere alla Stazione Centrale di Milano.

Ma alla stazione di Milano, il treno per Malpensa non c’è.

Il viaggiatore, coi suoi bagagli, deve raggiungere piazza Cadorna, in tutt’altra parte della città.

Può farlo in metropolitana: speri che le scale mobili funzionino. Altrimenti, sollevando i suoi bagagli,  scenda le luride scale del metrò alla Centrale - dove dormono alcolizzati fra il loro ciarpame, e si affollano teppisti e borsaioli - prenda il metrò per Cadorna, risalga faticosamente le scale, e lì è alla stazione Nord. Un’altra oretta, e sarà a Malpensa.

Non so se si capisce quel che sto descrivendo: nel linguaggio logistico si chiama «rottura di carico».

E ogni autotrasportatore sa che bisogna evitare il più possibile le «rotture di carico», ossia il trasbordo di merci e bagagli su mezzi diversi, da camion, a treno, a traghetto.

Le rotture di carico costano, rallentano (devi scaricare dal treno e ricaricare sul camion), fanno faticare inutilmente, e rompono anche le scatole.

Infatti, riprendiamo il caso del viaggiatore che parte da Venezia: se solo ha due valige pesanti, gli conviene andare a prendere l’aereo non a Malpensa  ma a Vienna; meno rotture di carico e nessuna rottura di scatole - e i dipendenti viennesi non ti rubano le valige.

Il che non è poco: a Malpensa, i dipendenti che rubano vengono reintegrati e rimessi ai nastri, a rubare di nuovo. Grazie ai sindacati.

Anche per il viaggiatore che parte da Torino o da Verona, Malpensa è scomoda e poco raggiungibile.

Lo è persino per chi abita a Milano: meglio per lui andare a Ginevra.
Alla stazione Centrale parte un treno per «Genève aéroport»: fateci caso, il treno svizzero non vi abbandona a Ginevra-città, ma vi porta precisamente a l’aéroport, per non farvi trascinare le valige. Come non farsi tentare?
Ovviamente le nostre Ferrovie dello Stato, oggi «Trenitalia», dovevano provvedere al collegamento di raccordo: bastavano venti chilometri di binari, e avrebbero fatto di Malpensa l’aeroporto più accessibile per l’enorme e ricco bacino di utenza, come si dice, di tutte le numerose città toccate dalla linea Torino-Trieste: per torinesi, novaresi, milanesi, bergamaschi, bresciani, veronesi, vicentini, padovani, veneziani, triestini, il mitico Nord-Est, l’area che paga più tasse e contribuisce di più al prodotto interno lordo.

Ebbene: le nostre Ferrovie non hanno voluto; si sono positivamente rifiutate di raggiungere  Malpensa.

Benche siano sulla carta privatizzate, e i loro funzionari siano pagati come «manager privati» (anzi molto di più), si comportano ancora come il monopolio statale che restano: non gli interessa dare un servizio ai viaggiatori, né accaparrarsi clienti.

Trenitalia ne ha già anche troppi, su quella linea: la devono prendere volenti o nolenti, si accontentino di quel che passa il convento.

Le ferrovie svizzere attraggono milanesi, apposta per loro hanno allestito  il treno «Genève aeroport»; la nostra Trenitalia non ne sente il bisogno.

Non gliene frega niente dei clienti. E nemmeno della concorrenza, figuriamoci.

Esattamente come alle hostess dell’Alitalia, che vogliono abitare ad ogni costo a Roma: che si muovano i viaggiatori del nord, questi coglioni, cosa pretendono? Che andiamo noi da loro?

Ecco perché il deperimento di Malpensa è un sintomo. Rivela la patologia fondamentale del nostro settore pubblico: coloro che in Inghilterra si chiamano con orgoglio «civil servants», servitori della cittadinanza, qui vivono se stessi, antropologicamente, nel senso contrario.

Il disprezzo del cittadino, del cliente, del contribuente, è l’asse portante della loro presenza nel mondo: il cittadino esiste solo per servire loro e pagare loro stipendi fuori mercato.

Se devono proprio servirlo, lo fanno di malavoglia e di malagrazia: tranvieri, hostess dell’Alitalia, giudici, grand commis, tutti più o meno la stessa mentalità.

Nella loro testa c’è questo: facciamo l’aeroporto dove è comodo per «noi», e «loro» si arrangino a raggiungerlo come possono.

Se nelle casse pubbliche non c’è abbastanza denaro, prima ci serviamo «noi» e ci diamo i nostri emolumenti miliardari; poi se resta qualcosa, forniamo qualche cattivo servizio a «loro».

 

Ovviamente, Formigoni avrebbero dovuto insistere con le Ferrovie ex di Stato perché si collegassero a Malpensa. Avrebbe dovuto fare il diavolo a quattro.

Invece no, anzi magari s’è fregato le mani: facciamo il collegamento con le Ferrovie Nord, che sono «nostre», della Regione. Ferrovie Nord che, sia detto per inciso, furono costruite un secolo fa da privati con la stessa mentalità: infatti ebbero cura, quei privati cosiddetti imprenditori, di farle a scartamento ridotto, perché non potessero mai essere integrate con le FS.

Una mentalità che si sbaglia a chiamare «borbonica», dovrebbe essere detta «savoiarda»: la mentalità dei conquistatori piemontesi, che presa l’Italia la saccheggiarono per rifarsi delle spese.

Il deperimento di Malpensa rivela anche peggio: una falla culturale profondissima dei cosiddetti poteri pubblici.

La loro incapacità di assumere la modernità tecnica, di capirla dal di dentro.

E’ possibile persino che Formigoni abbia visto l’aeroporto di Francoforte con le sue reti di binari al piano di sotto, e non abbia compreso la differenza con Malpensa.
Una mentalità in qualche modo arcaica e retriva: sono sicuro che nel fondo di ogni ministeriale dei Trasporti covi tuttora  l’idea arcaica che gli aeroporti servono ai «ricchi», e che i «ricchi» non hanno bisogno di treni, hanno le auto, e anzi vanno puniti per la loro ricchezza. Così pensa, palesemente, Visco.

E’ questo uno dei motivi per  cui in Italia le piscine private sono rare, mentre sono comuni in tutta Europa: sono colpite da una sovra-imposta sul lusso. Un lusso da punire.

Lo si è visto a Fiumicino, per anni: anche quello mica era collegato, solo qualche stracco e sporco bus, se non si voleva cadere nelle grinfie di tassisti rapaci, anche loro convinti che chiunque scende da un aereo è un ricco da taglieggiare.
Solo quando si è profilata Malpensa, i furbi rutelliani-veltroniani  hanno dato a Fiumicino un trenino per Roma. Poco e in ritardo. Ma almeno, arriva a stazione Termini, meglio che il Malpensa Express.
(1)

La faccio breve: le nostre classi pubbliche non hanno alcuna capacità di fare «grandi progetti integrati». Questa, che dovrebbe essere la specificità dello Stato e l’ambizione dei suoi agenti, non esiste più. C’era, sotto il Fascismo.

Allora si progettò l’acquedotto del Sele. Si creò l’EUR. La bonifica pontina costruì in pochi mesi non solo campi risanati, ma decine di città ben collegate con la loro area commerciale e metropolitana.

Lo stile architettonico rivela anche oggi questa capacità di pianificazione integrata: gli ospedali littori, i palazzi di giustizia mussoliniani, sorgono tutti nel punto giusto delle città, collegati con trasporti e reti viarie adeguate alle necessità di allora.

Con molti meno mezzi di oggi, per giunta. Ma si pensavano i progetti come un blocco unitario, integrato, di edilizia, servizi, trasporti, infrastrutture.

Immagino che i pianificatori fascisti avrebbero saputo fare Malpensa con i giusti collegamenti terrestri. I nostri attuali democratici parassiti, no. Non sono competenti, non ne hanno l’ambizione. Non considerano i grandi progetti integrati la loro missione civile principale. Ma soprattutto, la loro falla è «culturale».

Mi spiego. I cannibali di certe isole del Pacifico, che durante la guerra videro atterrare i colossali aerei americani che poi scaricavano merci in quantità, trassero da questo spettacolo tecnologico le conclusioni seguenti: quegli aerei erano mandati dagli dèi.

Quelle merci erano destinate  dagli dèi a noi selvaggi (2); solo che i bianchi se le accaparrano, perché attirano i grandi animali volanti a scendere sulle loro strisce d’asfalto, illuminandole di lampadine multicolori.

Fecero lo stesso, i cannibali. Spianarono nella terra battuta una patetica sbilenca  imitazione di pista d’atterraggio. Ai bordi, la illuminarono con fuochi di legna, per attrarre i grandi animali volanti con la pancia piena di doni. Poi aspettarono fiduciosi. Era il «cargo cult», il culto del cargo, che incuriosì gli antropologi degli anni ‘50.

Oggi anche i cannibali hanno rinunciato alla magia, hanno cominciato a capire la modernità. Il cargo cult è celebrato ormai solo a Malpensa. Si accendono le lucine lungo le piste, si riempiono i negozi di «Made in Italy» da quattro soldi, e si aspetta il miracolo dei clienti. Perché non arrivano? Perché il traffico cala? I clienti intanto prendono il treno per «Genève aéroport». Ma nella capitale ci si frega le mani: Alitalia resterà a Roma, Fiumicino ha vinto, Milano è stata fregata ancora una volta.

Maurizio Blondet

 

Note

1)  Varrà la pena di segnalare  che le ferrovie godono di una sorta di rinascimento in tutto il mondo. Per la prima volta da decenni, gli investimenti in materiale ferroviario hanno superato i 100 miliardi di euro. L’Europa è alla testa, con 34,2 miliardi. Ma anche negli Stati Uniti le ferrovie private stanno spendendo molto (20 miliardi di euro l’anno) soprattutto per attrezzarsi ai carichi intermodali, ossia per far viaggiare gli autocarri sui loro pianali. E’ in costruzione la tratta ad alta velocità Parigi-Francoforte. La Francia è percorsa da decenni da Tgv, treni ad alta velocità, e Parigi, inghiottendo l’orgoglio, sta piegandosi ad acquistare locomotori superveloci giapponesi Shinkansen, più capienti e sicuri dei treni Made in France. Nulla di questo fervore contagia l’Italia: le nostre ferrovie vengono lasciate degradare, la popolazione è ostile all’alta velocità (come ai rigassificatori, alle centrali, a tutto), la sinistra statalista proclama che i Tgv sono roba di «ricchi». Ancora una volta, arretratezza, invidia, e incomprensione culturale della modernità.

2)  Si noti che il movente del cargo cult era l’invidia. Per i cannibali, i bianchi non erano più ricchi perché erano più bravi e tecnicamente capaci, ma perchè rubavano i doni divini a cui avevano diritto loro, i selvaggi. L’invidia, o il timore dell’invidia altrui, è la vera, profonda causa dell’arretratezza: e le  molteplici ideologie di sinistra convergono appunto nell’invidia.

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