L'INTOLLERANZA E LA VIOLENZA SONO DI CASA A SINISTRA.

di Lodovico Ellena

 

 

L'acido articolo apparso su La Stampa a firma di Angelo d'Orsi sul cosiddetto "rovescismo, fase suprema del  revisionismo" lascia quanto meno perplessi ed attoniti. La polemica è con Pansa e l'attacco rivolto al suo ultimo libro, volume che segue alcune opere che mettevano il dito nella piaga di certa Resistenza colpevole di aberranti delitti poco o punto raccontati.

Pansa non è certo l'unico ad aver (ri)percorso quei giorni del dopoguerra, a lui và però l'indubbio merito di aver portato l'attenzione generale su un problema ignorato, annullato e cancellato: le migliaia di delitti compiuti da certi partigiani nei confronti - spesso - di ragazze, donne o uomini che con il fascismo non avevano nulla a che fare.

Furono infatti soprattutto loro, migliaia di persone fuori da questioni politiche, a pagare il prezzo di un odio classista, personale, isterico e i loro aguzzini spesso e volentieri partigiani con incarichi a volte anche dirigenziali.

D'Orsi vuole documenti: legga qualcuno dei libri su cui Pansa ha costruito i propri; parli con le persone che il medesimo ha intervistato e tocchi con mano i documenti viventi di quei tragici fatti: avrà molte sorprese.

D'Orsi vuole prove; una domanda: perché se tutto fu così chiaro e limpido come lui ed altri sostengono, di molti eccidi partigiani non fu mai data notizia di dove gli assassinati fossero finiti? Porto un caso personalmente studiato (Le pagine strappate della Resistenza, Tabula Fati, 2006): la tragedia dell'ex-ospedale psichiatrico di Vercelli nella quale il 12 maggio 1945 settanta fascisti furono orribilmente trucidati: i parenti ancora oggi non sanno dove siano stati sepolti i resti. Qualcuno avrebbe potuto dirlo, magari anonimamente e cinquant'anni dopo, ma nessuno mai lo fece nonostante i reiterati appelli pubblici dei famigliari. E casi come questo se ne contano a centinaia, così come altrettante centinaia furono i preti assassinati o ragazzini massacrati solo perché figli, parenti o amici di qualche gerarca: colpe immense e definitive agli occhi di certi partigiani.

D'Orsi chiede fatti: lo invito - sempre a titolo di puro esempio -  a leggere il libro di Renato Galli "Cosa racconta una lapide" o a parlare direttamente con l'autore, antifascista dichiarato, per conoscere nei dettagli quale marcio si nascondesse tra i partigiani responsabili della morte violenta dei suoi genitori, che fascisti non furono mai. Esistono a tale riguardo interessantissimi e poco noti documenti relativi a quei capi partigiani emersi negli anni '70, per usare un eufemismo, sconcertanti.

Resistenza alla verità, come dice Pansa, resistenza all'evidenza altro che "rovescismo": curioso poi che d'Orsi si aggrappi a Bobbio, peraltro un vero esperto in questo campo a pensarci bene. "Vogliono far colpo, vendere libri, far parlare di sé" dice ancora dei suoi "rovescisti". E se invece volessero dar voce a migliaia di ombre senza voce o volessero far parlare quei documenti ("pas de documents, pas d'histoire") che fino ad oggi nessuno o quasi aveva "visionato", altro che revisionato! Si è mai posto domande simili questo storico? Si è mai chiesto invece perché è proliferata una letteratura sotterranea, magari claudicante o poco scientifica, come mai per altri periodi storici quando per la quale alla fine gli autori hanno avuto più danni che profitto? Ha lui forse mai letto qualcosa "degli altri"? E se sì, come può liquidare con una battuta migliaia di episodi poco chiari e a volte truculenti come - sempre e ancora a titolo di esempio - il massacro della famiglia Scalfi a Vercelli? O quello gratuito e bestiale delle giovanissime sorelle Ugazio a Galliate? O del seminarista Rolando Rivi? O delle fotografie di dozzine di cadaveri inviate come monito dai partigiani alle famiglie per terrorizzarle nel biellese? Esistono prove, documenti, testimonianze ma qui il problema sembra essere tutto un altro: anche la storia degli storici ha i suoi "rovescisti" e ciò che fa più male è che spesso si tratti di persone che dichiarano enormità del tipo "per favore non chiamatela storia". D'accordo. Se si preferisce da ora in poi la chiameremo verità e questa storia sia a questo punto roba per professionisti. 

 
 
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