EDUCAZIONE MARZIALE DELLA GIOVENTÙ A SPARTA

di Michele Zambelli

Dario Wolf, "I Guerrieri" 1932, pannello inferiore della "Cacciata dei Titani". http://www.thule-italia.org/wolf.html

Agli inizi dell’età classica, è come se la polis spartana avesse preso coscienza del suo essere nella storia, volendo evadere per mezzo delle legge licurgea da un imbuto gravitazionale, da una fase di paralisi spirituale in cui l’epoca dell’epos l’aveva relegata. Come se intorno al settimo secolo le strette pendici del monte Taigeto e le aspre rive dell’Eurota fossero diventate per Sparta simbolo di un mondo privo di senso, un mondo dove il retaggio bestiale, le forze ingovernabili della natura, la paura delle grandi belve libere nelle notti gonfie di agguati ancora dominavano l’intima coscienza degli uomini. E’ proprio in questo momento a cavallo tra l’epoca dell’epos, dell’immaginazione mitica e quella del successivo trionfo della razionalità filosofica sulla cultura prerazionale che l’ethos, il kosmos lacedemone viene alla luce sottoforma di un nuovo “spirito del tempo”. In questa metamorfosi da una coscienza collettiva nebulosa, non dissimile da quella delle altre città greche contemporanee, a un ordine spirituale superiore mai più ripetutosi nel corso del tempo si coglie il definitivo affermarsi del laconismo: un gruppo di uomini e donne che solidariamente si volge verso la propria epoca, in cerca di un destino superiore, di una missione ultraspirituale, in aperta ribellione contro la disumanità, l’incompiutezza dell’era arcaica. La polis lacedemone nella sua comunità, e non più il singolo uomo come nell’epos omerico, compie un passo esistenziale gigantesco ritenendo di potersi elevare oltre i limiti della propria condizione meramente umana, verso una dimensione ultraterrena, facendo cadere il velo dell’indominabile per accedere ad una nuova forma dell’essere, ponendosi in rapporto alla totalità del mondo, non più succube ma capace anch’essa al pari del divino, di plasmare le cose volute da quelle informi, quelle spirituali da quelle materiali. In Sparta terreno e ultraterreno sono categorie mentali che perdono senso, non esiste separazione categorica  tra il “dio aristotelico, immutabile sempre salvo dal nulla” che produce l’ordine della natura e in essa produce l’uomo,  e dall’altra parte gli esseri umani, succubi, inermi, passivi. L’uomo di Lakeidemon si pone in rapporto di continuità, di proiezione, con il divino, vedendo se stesso come l’inizio di un preciso disegno spirituale, di cui la storia della città diventa depositaria e custode. La rivendicazione mitica della propria discendenza dalla stirpe divina degli Eraclidi  ne è la proiezione metapoietica in seno alla coscienza collettiva. Così  come la sedimentazione del divino nella struttura inconscia di Sparta avviene a livello iconico con la raffigurazione degli Dei sempre e solo armati, a immagine della condizione perennemente militare della città: è quindi lo spartano che plasma la divinità a propria somiglianza, non più viceversa. I Lacedemoni interpretano questo diritto-dovere di trascendenza come una continua tensione al valore, come una vita da spendere interamente nella ricerca dell’onore, ovvero nel valore ultraterreno per eccellenza, l’unico inespugnabile dalla sorte, l’unico inattaccabile dalla calunnia e indenne dalla malattia,  l’unico al riparo dai guasti della vecchiaia, a differenza dell’arte, meravigliosa ma instabile; della bellezza, ambita, ma caduca; della salute preziosa, ma fragile e comoda preda della malattia. Per Sparta l’onore ha la forza di vincere le forze gravitazionali di segno opposto che spingono  l’uomo verso la mediocrità e la bassezza, precludendogli la dimensione del transfinito. A chi si immola nel valore e nel sacrificio, la comunità spartana concede una dignità divina, una sorta di immortalità del suo io ideale, una trasfigurazione nell’infinito distacco di una dimensione eroica di cui l’intera polis si fa portavoce. “Quando si trema ogni valore è spento… l’onore questo è il merito vero, questo il premio migliore”; così cantava il poeta Tirteo nei suoi distici elegiaci di esortazione. Tuttavia, il pathos, la  tensione utopica  non può prescindere nella psiche collettiva di Sparta dal richiamo all’essenziale, all’autentico, in una sorta di ambivalenza di natura junghiana, tale per cui il sogno collettivo ascendente non può realizzarsi senza una forza opposta di richiamo alla sfera della concretezza e dell’autenticità. Il passaggio dall’immensamente grande all’immensamente piccolo, avviene senza traumi, attraverso i valori della sobrietà, dell’altruismo, di una coscienza politica improntata alla ricerca della solidarietà reciproca, all’amicizia cameratesca fra eguali. Come se l’elevazione al valore non potesse fare a meno di un bilanciamento solido e concreto per evitare di trasformarsi in una sterile e puerile fuga dalla realtà.

E’ proprio grazie alla costante educazione al valore, all’addestramento continuo alla virtù, che l’identità, l’ethos lacedemone può perpetuarsi ininterrottamente per oltre cinquanta decadi. Lo spirito di coesione, il senso della dignità collettiva, la finalità ascendente sopravvivono di generazione in generazione, trasfondendosi per mezzo dei principi educativi. Ecco allora che l’eccellenza pedagogia della gioventù diventa il fulcro del laconismo, il nucleo centrale della sua essenza proprio perchè i giovani assurgono a portafiaccole del  “ethos” spartano attraverso il tempo. Così la giovinezza diventa qualcosa di duttile e molle, tale per cui in quelle menti tenere e limpide la tensione al valore si imprime come i sigilli si imprimono nella molle cera, diversamente dagli uomini adulti, bastoni ormai ricurvi, ruote di carri per sempre curvate dal tornio,  pietre incavate dal corso del fiume; ferro e bronzo consumati dal continuo contatto delle mani; ormai incapaci di mutare se stessi, di riacquistare la forma rettilinea d'un tempo. Il sistema culturale e ideologico spartano si presenta allora ai giovani come una continua fucina di principi educativi, di orientamenti di vita fondati sull’esortazione alle virtù, sull’eroismo patriottico, sull’esercizio della coerenza nell’eleganza della misura, sul rigore dell’addestramento marziale, sul sacrificio del singolo per il bene di tutti. Emblematico è il passo mitologico riportato da Plutarco, secondo cui, Licurgo servendosi di due cuccioli avrebbe mostrato il senso più alto dell’educazione spartana: il primo allevato secondo i principi del rigore, non appena liberato si sarebbe avventato su una lepre in fuga; il secondo, educato in base ai principi della dissolutezza e dell’indifferenza si sarebbe seduto ai piedi di una ciotola, aspettando. Ecco perché alla nascita nessuno avrebbe fasciato il piccolo spartano, e una volta bambino, nessuno gli avrebbe fornito più di una tunica per tutti i dodici mesi dell’anno. La notte poi, avrebbe dormito su un freddo giaciglio di canne, affinché la rinuncia e il sacrificio diventassero per lui fonte di energia, di forza d’animo, di desiderio di conquista. Per cena avrebbe mangiato una semplice brodaglia nera appena sufficiente a placare l’appetito, affinché nella ristrettezza del cibo prendesse coscienza dei propri limiti corporei, imparando a dominarne le sue pulsioni, gli istinti più reconditi. Durante la notte non avrebbe fatto uso di torce, ma in balia dei lupi e delle intemperie avrebbe attraversato l’oscurità delle tenebre, affinché le paure svanissero in nulla davanti ai suoi occhi spalancati, trovando la forza di vincerle dentro di sé. Il giovane spartano non si sarebbe inchinato davanti a re o imperatore che fosse, quand’anche l’ufficialità della cerimonia lo avesse richiesto, perché il suo modus vivendi lo poneva al di sopra di chiunque altro, al là di ogni carica, di ogni titolo, di ogni falsa ipocrisia. Non avrebbe mai bussato a una porta, chiamando invece l’amico per nome affinché  in ogni istante non venisse a mancare il rispetto verso i propri pari, e a ciascuno di loro fosse riconosciuta la massima importanza. A sette anni sarebbe entrato in caserma, godendo di libera uscita solo una volta alla settimana, affinché la limitazione costante della vita privata lo inducesse a comprendere il supremo valore della libertà; realizzando come l’affermazione del proprio sé non potesse prescindere da quello degli altri, come l’amore individuale potesse convivere e rafforzarsi solo attraverso lo spirito collettivistico e cameratesco. In caserma avrebbe imparato a marciare inquadrato senza l’aiuto dei flautisti, fino a manovrare perfettamente nei ranghi, facendo sì che la consegna degli ordini impartiti divenisse una disciplina interiorizzata; che il rispetto delle norme nascesse dalla loro reale condivisione, e non dalla paura di successive sanzioni; credendo nella legge come dovere morale, unico mezzo a disposizione per il raggiungimento di un obiettivo comune di autoelevazione. Con quotidiani esercizi avrebbe imparato a usare spada e giavellotto, a lanciare il disco,  a tirare con l’arco, sottoponendosi  ad estenuanti gare di resistenza, osservando come nell’accrescimento della propria abilità potesse ritrovare accresciuta l'efficacia del suo impegno, acquistando fiducia nella propria abnegazione ed audacia, ormai pronto a sostenere ogni sfida, a vincere lo scoramento, la voglia di piegarsi, di abbandonarsi davanti alle mete più difficili. In palestra si sarebbe sottoposto a durissimi allenamenti per migliorare il vigore e l’armonia del proprio corpo, rendendolo simile alle immagini marmoree di atleti e divinità, simbolo in carne e ossa dell’energia interiore trasmessa  all’organismo fisico da una volontà cristallina, paradigma ideale delle bellezza interiore che si riflette nelle qualità fisiche ed estetiche del corpo umano. Periodicamente avrebbe deriso con altri camerati dei nemici condotti ubriachi in caserma,  mostrati pubblicamente nella loro bassezza, nella loro infamia di vita condotta nel vizio e nella dissolutezza, schiavi di principi sovvertitori e corruttori della virtù, di prostitute di poco costo; dissipando il proprio tempo nelle crapule; nel gioco dei dadi o nei bagordi, nei vizi più dissoluti, nei piaceri sregolati e servili. Ma il punto più alto del percorso educativo lo spartano lo avrebbe raggiunto divenendo  educatore di se stesso,  maestro e padre di sé,  sforzandosi di porsi al livello di bravura e di perfezione morale dei più grandi predecessori, ricordati nelle musiche e nei canti di guerra degli opliti.  Avrebbe allora educato se stesso emulando e superando le loro gesta, i loro comportamenti più belli, divenendo altrettanto irreprensibile sotto il profilo della condotta morale, eccellente sul piano dell'esperienza per essere fonte e radice di elevazione per la collettività intera, esempio vivente per tutte le nuove generazioni, condividendo insieme a loro la cena, facendosi cedere il posto, raccontando le proprie esperienze, i propri sbagli, le proprie vittorie. Ecco allora che lo spirito del laconismo, l’ethos di sparta, trovando la sua autentica rivelazione nell’elevazione al valore della gioventù, emerge chiaramente alla luce della liturgia, dei simboli, e dei riti della cerimonia di iniziazione dei giovani guerrieri al tempio di Artemide Orthia.  Atto supremo del loro percorso educativo, le reclute avrebbero sopportato la pubblica fustigazione pur di diventare Iranes, ovvero uomini soldato, guerrieri dai martelli vermigli, dallo scudo con la grande lambda. Dal fondo della piazza tra le case basse ricoperte di calce si sarebbe aperta la folla gremita per far largo al corteo, alla testa i sacerdoti avvolti in candide vesti con il capo fasciato da lunghe bende di lana, gli araldi e i loro serventi, poco dietro gli eguali in marcia a passo cadenzato, vestiti di tuniche e di mantelli rossi carminio. Con rapida conversione si sarebbero disposti lungo quattro file, fermandosi contemporaneamente nel loro marziale splendore, scudo contro scudo, facendo ala alle guardie reali dalle armature decorate,  ai due re, agli educatori. Dopo il sacrifico alla dea Artemide si sarebbero spalancate le porte del tempio e al suono acuto dei flauti, i cinque efori avrebbero chiamato ad uno ad uno i giovani chiedendogli di salire la scalinata del tempio, a segnare metaforicamente l’inizio di una  trasfigurazione interiore ed esteriore, un'ascensione sul piano del pensiero e della moralità, un aprirsi verso il non limite del cielo. Afferrati per le braccia e fustigati sotto la grande statua armata della Dea, avrebbero resistito fino allo sfinimento, ubbidendo alla radicata legge interiore dell’onore, come se fosse un atto dovuto, un atto necessario per potersi liberare da una condizione di inferiorità esistenziale e riconoscersi anch’essi come “eguali” attraverso l’immagine del proprio sacrificio riflessa nell’iride dei loro genitori, dei loro fratelli più grandi. In quel corpo prostrato ai colpi di una frusta, sopportata eroicamente, talvolta fino alla morte, ritroviamo l’eco di un verso tratto dall’ “Agamennone” di Eschilo: “nella sofferenza vi è la conoscenza”, ovvero nel sacrificio portato all’estremo vi è quanto più nobile possa concepire l’anima umana: la volontà  di osare, la volontà di essere. Con quella lucida perseveranza che resiste ai colpi della frusta l’anima esce dalla propria finitudine, arrampicandosi sul fronte dell’essere, liberandosi pienamente. Qui si concentra tutta la tensione metafisica del laconismo.

 

 

Edgar Degas, "Esercizi di giovani spartani" 1860, National Gallery, Londra