SPARTA: ESTETICA DELLA MORTE SUL CAMPO DI BATTAGLIA
di Michele Zambelli
G.R.E.C.E ITALIA

E’ il momento della verità, l’atto supremo, lo stadio ultimo della 
consapevolezza di sè, il momento del chiaroscuro, quando la traccia della 
vita e della morte s’intrecciano e si confondono prima che una delle due 
prevalga sull’altra.
 
Le membra squarciate, la mente ancora lucida, il guerriero è consapevole 
della morte vicina: il lento dileguarsi dei sensi, la realtà che lentamente 
si sfalda, l’ombra che cala sulla memoria di un nome, sul ricordo di un 
canto guerresco, sul disegno di un volto che si era amato. Tutto diventa 
oscuro mentre l’anima si allontana dal cuore verso l’enigma estremo.
E’ la morte eroica in sé il punto di arrivo, non il punto di non ritorno 
oltre il quale si apre una nuova dimensione incorporea. In Sparta la morte 
sul campo di battaglia è la fine di tutto, qui si ferma la proiezione del 
futuro, del tempo. Lo si inizia a capire fin da bambino, lo si percepisce 
dai racconti dei più grandi: i giorni passati in riva all’Eurota, le albe i 
tramonti, il volgere delle stagioni condurranno inevitabilmente a quel 
momento.
Il destino per lo spartano è meno ignoto che per qualsiasi altro individuo, 
egli non sa dove, non sa quando ma con relativa certezza può immaginare 
l’ultimo istante della sua vita: il fragore delle spade, le urla, il suono 
dei flauti, la polvere macchiata di sangue, la voce umana che tramuta in un 
grido strozzato.
La morte sul campo di battaglia è forse l’unica verità, la sola che basta 
allo spartano di sapere: la certezza che in quel corpo la vita c’è stata, 

pienamente vissuta, portata all’intensità più pura, lontano immensamente 
dalle meschinità dell’umana esistenza. E’ la certezza di un tempo che viene 
a mancare, ma che c’è stato, che ha il peso solido del sacrificio, 
dell’elevazione, l’amaro insopportabile sapore della rinuncia, ma che ha la 
forza di prolungare la memoria allo schianto dell’armatura nella polvere, 
eternandola in una dimensione sovraumana, sottraendola alla fugace corsa del 
tempo.
Al guerriero basta solo questo, la bellezza, l’estasi di quell’istante che 
precede il trapasso improvviso, l’attimo prima che si squarcino le reti 
dello spazio-tempo, e che il buio e il silenzio gravido di orrore aprano il 
baratro sotto di lui.
La morte eroica è la scelta finale per il lacedemone, la capacità di 
mettersi in gioco fino all’ultima goccia di sangue, di vivere nell’onore 
fino all’ultimo respiro: il grido estremo e soffocato del soldato in cambio 
di quella certezza che rischiara l’anima e scalda il cuore prima che esso si 
schianti.
La morte non può essere attraversata in una dimensione diversa, proseguendo 
in altre forme il filo della propria esperienza: oltre di essa vi è solo il 
nulla, il non luogo dove tutto è silenzio e tenebra. Questo l’animo del 
giovane lacedemone mentre muore sul campo di battaglia: cogliere pienamente 
quell’ultimo secondo, armi in pugno, quando una sola vampata avrebbe arso 
tutte le sue opportunità di vivere, la felicità, l’amore della donna, lo 
sguardo dei propri figli, la forza delle proprie membra, il nome e il 
proprio passato, tutto, anche il senso stesso del proprio essere esistito.
Non ha senso per lui interrogarsi come evitare la morte dopo fatiche e 
sofferenze, gioie e dolori; là sul campo di battaglia per un inspiegabile 
intreccio di forze e di energie diverse vede aprirsi davanti ai suoi occhi 
un’opportunità; l’opportunità di vedersi lanciare alla vertigine 
dell’assoluto, all’impossibile altezza del sublime. La morte sul campo di 
battaglia ha la forza di sconfiggere l’assenza di tutto, l’assurdo della 
scomparsa: è il buio che lampeggia più forte di ogni luce, la tenebra che 
riluce più della fulminante fiamma del sole.